Questo luminare della fede ortodossa brillò durante l’oscura epoca in cui l’impero bizantino agonizzava, messo alle strette dalla rovina economica e pressato da ogni parte dall’invasione turca. Esso si trovava piazzato nella dolorosa alternativa:
1) cadere nelle mani degli infedeli e sparire come impero cristiano oppure
2) offrirsi all’orgogliosa dominazione degli eretici Latini, i quali non erano disposti ad accordar loro sostegno finanziario e militare se non al prezzo di una unione delle Chiese o piuttosto alla sottomissione dell’Ortodossia al papato.
In seno ad una pia famiglia di Costantinopoli, nel 1392, S. Marco ricevette una brillante educazione dai migliori maestri della capitale che, nonostante impoverita e spopolata, restava il centro culturale dal mondo cristiano. Egli divenne ben presto professore alla scuola patriarcale, ma abbandonò la carriera accademica, all’età di 26 anni, per divenire monaco in un piccolo monastero vicino Nicomedia. Lì cominciò un’intensa vita di ascesi e di preghiera, ma, sotto la minaccia dei Turchi, dovette ben presto ritornare a Costantinopoli, nel monastero di San Giorgio. Alla vita contemplativa e al servizio dei fratelli, aggiungeva lo studio dei santi Padri, redasse alcuni trattati dogmatici sulla linea di s. Gregorio Palamas e qualche opera di preghiera.
Malgrado il suo desiderio di rimanere nascosto, la sua scienza e la sua virtù gli attirarono la stima dell’imperatore Giovanni VII Paleologo (1425-1448) che stava preparando un gran concilio per l’unione con la Chiesa di Roma al fine di ottenere aiuto dal papa e dai principi europei. Fu per obbedienza al monarca che questo pio monaco esicasta, accettò di salire sulla tribuna della chiesa, di Essere consacrato metropolita di Efeso e di prender parte alla delegazione bizantina al titolo di rappresentanza dei Patriarchi di Gerusalemme, di Antiochia e di Alessandria e come esarca del concilio.
La delegazione, composta dall’imperatore e dal patriarca Giuseppe II, da 25 vescovi e da un seguito di 700 persone, si imbarcò per l’Italia con un grande slancio di entusiasmo. Tutto il mondo era convinto di realizzare rapidamente l’unione desiderata da tutti i Cristiani. S. Marco lungi dall’essere l’astro fanatico con cui viene soventemente presentato, patteggiava per questa speranza, senza pregiudizi verso i Latini, ma tenendosi fermo sulla rocca della fede. Per Lui, come per la maggior parte dei greci, non si poteva realizzare l’unione se non nel ritorno della Chiesa romana all’Unità nella verità, che essa aveva rotto a causa delle sue innovazioni.
Ma dal loro arrivo a Ferrara, il papa Eugenio e i suoi teologi mostrarono tutt’altra disposizione. Inizialmente da alcuni dettagli di protocollo, poi in maniera più evidente, essi trattarono i delegati bizantini come dei veri prigionieri, impedirono loro di uscire dalla città e ritardarono in maniera eccessiva la distribuzione delle sovvenzioni promesse per il soggiorno, tanto che alcuni vescovi furono costretti a vendere i loro effetti personali per potersi nutrire. Gli argomenti all’ordine del giorno erano i seguenti:
a) il dogma della processione dello Spirito Santo e la questione dell’aggiunta della formula «che procede dal Padre e dal Figlio (FILIOQUE)» al Simbolo di Fede;
b) l’esistenza del Purgatorio;
e) l’uso del pane non lievitato (azzimo) per la Liturgia Latina, e la questione della consacrazione dei SANTI DONI con le sole parole dell’ISTITUZIONE (Latini: solo «mangiate e bevete») senza l’invocazione del Santo Spirito (epiclesi);
d) il primato del Papa.
Poiché i Latini si trovavano in maggioranza schiacciante, per cui tutti i voti sulle questioni dogmatiche avrebbero visto la loro opinione vincente in anticipo, l’imperatore e il patriarca ritardarono l’apertura del dibattito sulle questioni fondamentali, al fine di procedere con un diverso modulo di scrutinio. In attesa, si decise di discutere sulla secondaria questione del purgatorio. In risposta agli argomenti dei teologi latini, S. Marco prese la parola in nome della chiesa ortodossa dicendo: «Certo le anime dei defunti possono beneficiare di un certo “PROGRESSO” così come i dannati di un relativo “SOLLIEVO” della loro sorte, grazie alle preghiere della Chiesa e alla misericordia infinita di Dio; ma l’idea di un castigo prima dell’Ultimo Giudizio e di una purificazione attraverso un fuoco materiale, è completamente estranea alla tradizione della Chiesa». Si constatò ben presto che due differenti mondi si affrontavano e che ogni discussione dottrinale arrivava necessariamente ad un vicolo chiuso.
Le settimane trascorrevano senza alcun progresso. Avendo i litigi interrotto la discussione sul Purgatorio, si passò alla questione scottante dell’aggiunta arbitraria del FILIOQUE nel CREDO latino. Il metropolita di Efeso elevò a nuovi fermenti la voce della coscienza della Chiesa: «Il Simbolo di Fede deve essere conservato intatto, come alla sua origine. Tutti i santi dottori della Chiesa, come tutti i Concili e tutte le Scritture, ci mettono in guardia contro gli eterodossi, devo io, malgrado ciò che affermano queste autorità, seguire quelli che ci incitano ad unirci dietro una facciata di falsa unione, essi che hanno adulterato il Santo e Divino Simbolo e introdotto il Figlio come causa seconda del Santo Spirito?».
Dopo 7 mesi di sterile attesa e di vane chiacchiere, il papa Eugenio IV fece trasferire il Concilio a Firenze. Una volta installati, si decise di affrontare la questione dogmatica. Lo spirito costantemente fissato in Dio e purificato dalla preghiera, S. Marco poté esporre, con chiara sobrietà la dottrina delle Scritture e dei Santi Padri sulla «processione» del Santo Spirito. Quando i teologi latini presero la parola, essi annoiarono l’uditorio con sedute interminabili, sottilizzando su argomenti vani, sostenuti da un punto di partenza razionale e con innumerevoli citazioni dei Padri tirate fuori dal loro vero contesto e falsamente interpretate. Il combattimento assomigliava a quello di Davide contro Golia (I Sam. 17-32).
Durante tutto questo tempo, il metropolita di Nicea, Bessarione e quello di Kiev, Isidoro, erano divenuti partigiani accaniti dell’unione. Ciò sia per ambizioni personali (essi dovevano in effetti in seguito divenire ambedue cardinali del Papa), sia per l’antica ostilità della corrente umanista contro l’esicasmo e il monachesimo, rappresentati da S. Marco. Essi si ingegnavano, dietro le quinte, a convincere gli altri prelati che i Latini non erano separati dalla verità e che la loro dottrina sul Santo Spirito non era eretica ma che avevano soltanto sviluppato l’insegnamento tradizionale nel loro proprio linguaggio.
Prostrati da un lungo oziaggio, dalla mancanza di sussidi e dall’alterigia dei Latini, inquieti sulle sorti della capitale minacciata e sentendosi presi in trappola, i vescovi si lasciarono a poco a poco guadagnare dalla causa di una unione di compromesso, per la quale l’imperatore e il patriarca non cessavano di fare pressione. Il dibattito dogmatico culminava ormai in un vicolo cieco, come tutte le altre discussioni, per cui lo si voleva far finire, liberi di ritrattare tutto una volta rientrati in terra bizantina. Ma, malgrado le pressioni e le ingiurie dei suoi avversari, S. Marco, restando inflessibile dichiarò: «Non è permesso raggiungere compromessi in materia di fede».
Egli aveva compreso che era inutile opporsi con la parola ai sofismi (ragionamenti) dei Latini, e poiché il dissenso andava crescendo tra i bizantini, decise di ritirarsi dalla lotta e di mostrare la sua disapprovazione soffrendo in silenzio. I Latini presero allora sicurezza, rifiutarono essi stessi il compromesso e pretesero il riconoscimento dai Greci del FILIOQUE e l’adozione di alcuni dei loro usi liturgici. Le ultime resistenze della coscienza dei Greci erano state vinte sotto l’ordine dell’imperatore, e tutti firmarono finalmente il decreto della ipocrita Unione. Di Unione, non si poteva in effetti parlare poiché quando venne celebrata la liturgia solenne, avanti al papa e a tutto il Concilio, il 16 luglio 1439, venne letto certamente il decreto nelle due lingue, ma alcuni Greci non si comunicarono e le due delegazioni, situate da una parte e dall’altra dell’altare, non si scambiarono il bacio di pace.
S. Marco era stato il solo a rifiutarsi di firmare. Allorché il papa Eugenio IV lo apprese, esclamò: «Il vescovo di Efeso non ha firmato, allora noi non abbiamo concluso niente!». Egli convocò il Santo e voleva farlo condannare come eretico; ma, grazie alla protezione dell’imperatore, costui poté rientrare a Bisanzio con il resto della delegazione.
Arrivando a Costantinopoli, dopo 17 mesi di assenza, gli artefici dell’ipocrita unione, furono ricevuti dal disprezzo e dalla riprovazione generale del clero e di tutta la popolazione. L’assemblea dei credenti, il popolo santo, ilsacerdote reale (I Pietro 2,9), che è portatore della pienezza della verità e resta il criterio ultimo della validità dei concili, cioè il popolo, rigettò lo pseudoconcilio di Firenze e disertò le Chiese di chiunque fosse in comunione con gli unionisti, salutando invece, S. Marco come un nuovo Mosè, come il confessore della Fede e come la colonna della Chiesa. Uscendo dal suo silenzio, il Santo iniziò allora una campagna contro l’Unione o meglio una campagna per ristabilire l’unità della Chiesa Ortodossa con la sua predicazione ed i suoi scritti, così come con le sue lacrime e le sue preghiere. Egli disse: «Io sono convinto che quanto più mi allontano da essi (gli unionisti), tanto più mi avvicino a Dio e a tutti i Santi, e quanto più mi separo da essi tanto più mi unisco alla verità». Quando si procedette all’elezione del nuovo patriarca, Metrofane, il Santo dovette fuggire da Costantinopoli per evitare la concelebrazione forzata con lui, e si recò nella sua diocesi, Efeso. Ma anche lì egli si scontrò con gli unionisti e ripartì, sperando di trovare rifugio al Monte Athos, ma lungo la strada venne arrestato e mandato, per ordine dell’imperatore, in residenza forzata nell’isola di Lemno. Liberato nel 1442, ritornò nel suo monastero, da dove egli continuò la lotta fino al suo ultimo respiro (23 giugno 1444). Sul letto di morte S. Marco il Confessore affidò la fiamma dell’Ortodossia al suo antico discepolo Giorgio Scolarios, che per un attimo si era lasciato coinvolgere dalla causa dell’Unione ma si era ben presto pentito. Costui divenne un ardente difensore della Fede e fu il primo patriarca di Costantinopoli dopo la presa della città, sotto il nome di Ghennadio.
Essendo la crociata delle potenze europee, sollevata dal Papa, penosamente fallita all’epoca della disfatta di Varna (10 novembre 1444) niente poteva più ostacolare l’offensiva turca. Per disperazione di causa, si riuscì a fare proclamare ufficialmente l’Unione a Costantinopoli, nel dicembre 1452, ma senza ottenere l’aiuto sperato dall’Occidente. Finalmente, dopo la presa di Costantinopoli, il 29 maggio 1453, l’ipocrita Unione delle Chiese si consumò sotto la cenere e le macerie della città terrestre, lasciando la Fede Ortodossa vivente e inalterata per la salvezza del popolo cristiano.
Per le preghiere del nostro Santo Padre Marco, Signore Gesù Cristo, abbi pietà di noi. Amìn.
Da: “IL SINASSARIO. Vite di Santi Ortodossi”, Dall’opera grande composta da Macario,
monaco atonita di Simonos-Pétras (Monte Athos) – Traduzione dal francese di Ermi.
Dall’“Editions To Perivoli Tis Panaghiàs Thessalonique (1987/1996)” –
Edizioni ΟΡΘΟΔΟΞΙΑ, Macchia Albanese (Makji) – 2003.